Decidersi a decidere: che sia anche una questione di fiducia?

Ogni giorno siamo chiamati ad operare scelte più o meno semplici. Alcune volte lo facciamo per rispondere a un nostro desiderio, altre perché ci ritroviamo nella condizione di farlo o perché è l’unica possibilità che abbiamo.

Decidere può non essere banale e ognuno di noi, per storia personale e modo di agire, opera in modo diverso e soggettivo.

Di fatto però tutti siamo accomunati dalla necessità di fare i conti con l’incertezza.

Nel momento in cui prendiamo una decisione, di qualunque natura essa sia, siamo messi di fronte ad una condizione seppur minima di instabilità. Un po’ come quando camminiamo. Per fare un passo in una qualunque direzione, dobbiamo accettare di incorrere in un brevissimo, tendenzialmente impercettibile momento di disequilibrio e di sospensione. Il momento in cui il peso del corpo è proteso verso la gamba che segna la direzione, sollevandosi contemporaneamente dall’altra. Per ritrovare la stabilità di un nuovo passo dobbiamo pertanto tollerare l’instabilità del processo che ci porterà lì.

Fare i conti con l’incerto può non essere semplice, conducendo alcune persone a rimandare continuamente le decisioni, così come altri a non metterci nemmeno un briciolo di pensiero agendo di puro impulso.

Accogliere l’incertezza significa concedersi di stare in quel ‘non sapere’, ma anche considerare la possibilità che la scelta effettuata non porti al risultato sperato, ammettendo a se stessi che esiste anche l’eventualità di sbagliare.

Tutto ciò, per quanto evidente dal punto di vista razionale, può essere difficile da digerire emotivamente, poiché ancora una volta siamo messi fortemente di fronte a noi stessi, a quanto profondamente ci fidiamo delle nostre risorse e delle nostre capacità.

Quando parlo di fiducia non intendo un atteggiamento acriticamente positivo, e nemmeno la sopravvalutazione di sé. Intendo piuttosto quel sentimento profondo che ci porta a credere nel fatto che comunque andrà staremo in piedi, e che -nel caso in cui dovessimo cadere – saremo in grado di rialzarci, di chiedere un aiuto, o ancora di sederci a terra per riposare.

Fiducia nella propria persona significa anche consapevolezza del fatto che per quanto il contesto giochi la sua parte (e questo è un ambito che non abbiamo possibilità di governare), noi ci siamo e giochiamo la nostra!

A questo proposito Friedrich Nietzsche scriveva che “pochi uomini in generale hanno fede in se stessi, e di questi pochi gli uni ricevono la fiducia in sorte come utile cecità o come parziale ottenebramento del loro spirito (che cosa scorgerebbero se potessero vedere se stessi fino in fondo); gli altri se la devono prima di tutto conquistare; tutto quello che essi fanno di buono, di valente, di grande è in primo luogo un argomento contro lo scettico che dimora in essi: si tratta di convincere o di persuadere costui, e per questo occorre quasi un genio”.

 

 

VITE DA EXPAT

“Che tu abbia la pagoda, o la tenda dei Sioux
Una casa è la tua casa quando dentro ci sei tu”

(La mia casa, Zecchino d’Oro 2014)

Chi vive da expat conosce bene quel groviglio interiore e quell’immancabile senso di vuoto collegati al ‘non sentirsi a casa’. Ma conosce anche il sapore della soddisfazione che si prova scoprendosi un pochino più comodi in un luogo fino a pochi momenti prima vissuto come estraneo.

Cambiare ‘casa’ a trecentosessanta gradi è un cambiamento importante e i modi di affrontarlo sono molto personali. C’è chi si prepara cercando di immaginare con anticipo come sarà, chi si butta facendo e basta, chi si concentra sulla parte pratica e organizzativa del trasferimento, o ancora chi decide e parte nel giro di una settimana.

Tutti però dobbiamo fare i conti con un aspetto importante. Per quanto la nostra mente possa essere abitata da desideri, convinzioni e tentativi di prefigurarsi ‘come sarà’, nel presente di ciò che viviamo ci sono inevitabilmente (e per fortuna!) variabili che non avevamo considerato e che ci troviamo ad affrontare e vivere. Variabili che segnano una strada più o meno diversa dalle nostre aspettative; diversa, e certamente reale.

Come sopravvivere a una transizione così potente?

Esiste infatti un tempo di pura sospensione, che si può collocare quando si è camminato quel tanto che basta per essere sufficientemente lontani dal luogo da cui si è partiti, ma non ancora abbastanza per sentirsi veramente vicini con il luogo in cui ci si trova.

È il tempo dell’instabilità e della scoperta, della curiosità e della nostalgia. È anche un tempo in cui si sperimenta quel senso di vuoto (o chissà per alcuni magari di ‘tutto pieno’) a cui accennavo nelle prime righe. Un tempo che a mio parere tiene insieme grandi domande che hanno a che fare con il “come stiamo” ma anche con il “chi siamo”.

Il contesto in cui viviamo ci offre una cornice per definire meglio chi siamo noi; ci può piacere o non piacere per nulla, ma di fatto ci condiziona. Venendo a mancare quell’ambiente così familiare che è il nostro paese di origine è possibile, e molto comune, rimanere destabilizzati; e questo può accadere anche quando il cambiamento è stato desiderato fortemente.

È proprio in queste occasioni, così come spesso accade nelle fasi di transizione, che vale la pena realizzare che la casa più accogliente che abbiamo siamo noi stessi. E se vogliamo avere un po’ di compagnia e di comprensione bisognerà aprire la porta di quella casa, dare un’occhiata al suo stato e piano piano accogliere e attraversare quel groviglio emozionale che tiene insieme i sentimenti più diversi.

A quel punto sarà possibile mettersi comodi, più o meno soddisfatti della strada percorsa, ma certamente più consapevoli di sé e quindi pronti per nuove scelte.

 

 

ME, MYSELF AND I. Ovvero uno sguardo esplorativo su noi stessi.

Parlando con le persone, non soltanto nell’ambito del mio lavoro, spesso mi accorgo di quanto per molti fare delle cose da soli risulti noioso, difficile, o addirittura temibile. Un po’ come se il famoso sale della vita fossero solo ed esclusivamente gli altri.

Certo ci nutriamo di relazioni. Basti pensare a quanto per un neonato siano essenziali le attenzioni di chi se ne prende cura, o ancora al bisogno di condividere con chi amiamo qualcosa di particolare che ci accade durante la giornata.

Dobbiamo però iniziare a considerare che anche noi stessi siamo un nostro valido interlocutore.

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